Muore uno studente, riflessioni sui Pcto
- Nick Mummybook
- 23 gen 2022
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 25 gen 2022
Quando? Quando lo capiremo che il progresso che andiamo blaterando è regresso e null’altro? Quando e chi avrà il coraggio di dire - tra quelli che decidono ovviamente - che questa corsa forsennata a voler ficcare nella scuola chissà quante e quali attività non è proficua? Investire sulla formazione vuol dire investire sulla vita. E noi che facciamo? Mandiamo a morire un ragazzo, un alunno! “Uno studente delle scuole superiori muore in un incidente sul lavoro”. Un titolo che è il più tragico degli ossimori: risultato di anni di riforme che dalla scuola pretendono di cavare chissà cosa e chissà a quale prezzo! Un ragazzo, 18 anni, è morto a Pavia di Udine, schiacciato da una trave d’acciaio, in un’azienda meccanica. Ora, chi non conosce il mondo della scuola, chi è rimasto fermo all’idea di allievi nei loro banchi, gli studenti può immaginarseli, al massimo, davanti a un pc, un tablet, seduti sulle sedie con le rotelle, sponsorizzate dalla ministra Lucia Azzolina, magari a fare una gara nei corridoi. Ma mai se li figurerebbe in fabbrica a lavorare! E, invece, è andata proprio così: lo studente era impegnato nel suo ultimo giorno di PCTO, il Percorso per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento. Doveva raggiungere un certo numero di ore di tirocinio e poi discuterne, a Giugno, con i commissari dell’Esame di Stato. Esame che non sosterrà.
Ma ci rendiamo conto della follia? Della trasformazione, che è deformazione della Scuola. Non ci bastavano i morti sul lavoro? Gli operai, padri di famiglia. No! Le potenziali vittime ce le siamo andate a cercare tra i banchi di scuola. E fortunato il Nord con tutte le aziende che ci sono! Sai quanti bei percorsi! Peccato che per godere delle opportunità, la vita bisogna averla.
Non è il primo caso di diciottenne morto sul lavoro? Certo, ma non era un operaio. Era uno studente. Dimentichiamo allora che si è lottato affinché l’istruzione fosse garantita a tutti? Lo sappiamo che una volta lo studio era un lusso, roba da ricchi. E i poveri? I poveri al massimo un po’ di scuola elementare e poi a lavorare: dovevano aiutare le famiglie.
L’obbligo scolastico fino alla terza media, proclamato nell’articolo 34 della Costituzione italiana “L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”, diventa effettivo solo nel 1963, con l’allora ministro Luigi Gui.
Con lo Statuto dei Lavoratori, nel 1970, si viaggia nella direzione totalmente opposta a quella dei Pcto degli anni Duemila: non gli studenti a lavoro, ma i lavoratori a scuola. Quelli che non avevano concluso l’obbligo scolastico lavoravano su turni compatibili con la frequenza ai corsi e con la preparazione agli esami. E i permessi per completare il percorso di formazione sui banchi, si noti bene, erano retribuiti. I Pcto, al contrario, da molti sono definiti “manovalanza gratuita”.
Poi l’innalzamento dell’obbligo scolastico oltre gli otto anni, già proposto dal ministro Luigi Berlinguer, diventa legge nel 2006, ministro Giuseppe Fioroni. Obbligo scolastico fino a 16 anni ed obbligo formativo fino a 18, di fatto, “nessun giovane può interrompere il proprio percorso senza aver conseguito un titolo di studio o una qualifica professionale”.
Poi, chissà, ad un certo punto, dev’essere sembrato brutto che tutti potessero studiare e basta. Troppo semplice, banale. Così, nel 2003, la ministra Letizia Moratti - premier Silvio Berlusconi - promuove l’alternanza scuola-lavoro, una metodologia didattica che alterna teoria e pratica: studenti fuori dalla scuola nelle aziende. Nel 2015, col ministro Stefania Giannini - premier Matteo Renzi - tale metodologia è inserita come obbligatoria nella “Buona Scuola”. Che gli studenti facciano pratica! Vadano a scuola, certamente, ma anche a lavorare un po’: per la precisione, 400 ore chi frequenta il tecnico o un professionale e la metà chi frequenta un liceo. E se non c’è tempo durante l’anno scolastico - non sia mai detto che si voglia stare seduti a leggere ed applicarsi esclusivamente sul piano teorico - che le ore di alternanza scuola-lavoro si svolgano in estate o durante le vacanze di Natale o di Pasqua, ché la scuola - per soddisfazione di chi l’accusa dei tre mesi di vacanze l’anno - deve adeguare il suo striminzito calendario a quello delle fabbriche.
Sarebbe stato troppo antiquato pensare che, per preparare i ragazzi al mondo del lavoro, bisogna prima farli studiare. In un ritmo di vita sempre più frenetico, bruciare le tappe o illudersi di averle bruciate deve essere l’imperativo categorico. Tutto presto. Tutto prima. Non importa come.
Sarebbe troppo difficile credere che lo studente sia una persona, un soggetto che deve imparare a pensare, un animo sensibile che, crescendo, saprà gestire le sue emozioni, se avrà imparato, anche a scuola, a riflettere.
Sarebbe troppo retorico dire che la Scuola è una palestra di Vita. Troppo tronfio per la classe docente, bersaglio prediletto di mortificazione da parte dell’opinione pubblica, immaginare che le lezioni dei professori possano andare al di là dei contenuti e preparare gli studenti alla vita e dunque anche al lavoro, al senso di responsabilità, al rispetto. Troppo poetico dire: questa è l’ultima campanella dell’ultimo giorno di scuola, sei entrato bambino ed esci adulto!
Quando i ragazzi saranno tutelati? E come? L’Educazione Civica da due anni è materia obbligatoria e trasversale a tutte le discipline. Diciamo loro quali sono i diritti e nello stesso momento glieli neghiamo. Eppure lo studio non deve essere un lusso, ma il diritto per eccellenza dei giovani. I nostri allievi, se oggi avranno tempo per studiare, domani lavoreranno meglio! E invece il tempo glielo togliamo, perché ogni ora di tirocinio è un’ora in cui potrebbero studiare, coltivare una passione, dormire. È così che si cresce! Anche con la noia, con i ritmi lenti. È così che si diventa grandi, responsabili, accorti!
Ma forse è per questo che l’Esame di Stato non si chiama più Esame di Maturità, perché alla maturità da raggiungere a scuola non ci si crede più.
Nicoletta Tancredi

Il quotidiano del Sud - Salerno
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